A fine settembre, il quotidiano online il Post ha pubblicato un articolo dal titolo esplicito: “Yuval Noah Harari la fa sempre semplice”. L’occasione per il pezzo è l’arrivo anche in Italia dell’ultimo saggio dello storico israeliano, Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall'età della pietra all'IA (Bompiani). La tesi del libro, come scrivono al Post, è “che la principale differenza tra le dittature e le democrazie sia il modo in cui gestiscono le informazioni. Le dittature sono più interessate a controllarle che a verificarle, e le democrazie più interessate a condividerle, valutarle e correggerle tramite reti pubbliche, che non a controllarle”. Tema quanto mai attuale.
L’articolo dà però conto di una serie di critiche che Harari ha ricevuto nel corso degli anni, non solo legate a quest’ultimo libro. Queste critiche sono sostanzialmente di due tipi. Il primo è che Harari sia sostanzialmente pessimista nei confronti della tecnologia, al limite del luddismo. E questo ultimo libro che tocca i temi dell’intelligenza artificiale non farebbe eccezione. La seconda tipologia di critica è più metodologica, ovvero ha a che fare con la tendenza che l’autore avrebbe a semplificare fenomeni complessi che si sviluppano in ampi contesti geografici e storici. Harari, insomma, la farebbe appunto troppo semplice.
Il libro di Harari è usato anche come esempio in un recente articolo di Michael Marshall pubblicato sul settimanale inglese New Scientist. Anche l’articolo di Marshall ha un titolo diretto: “Getting the facts right” (che potremmo tradurre come “Prendere in considerazione i fatti giusti” o “Riportare i fatti in modo corretto”). Per Marshall, Nexus di Harari è “pieno di sciocchezze mal sostenute, inclusa una definizione irrimediabilmente incoerente del concetto di informazione”. Accanto al libro di Harari, il giornalista inglese segnala che anche Illuminismo adesso, uno degli ultimi libri scritti da Steven Pinker, è “pieno di difetti”. Marshall cita anche il recente bestseller di Jonathan Haidt, Generazione ansiosa, che sostiene l’esistenza di un’epidemia di problemi psicologici nei bambini causati dai social media “nonostante le meta-analisi affermino che le prove dei danni sono deboli”.
La domanda che si pone Marshall è come sia possibile che errori banali, semplificazioni come quelle di Harari o posizioni non sostenute dai fatti scientifici siano stati pubblicati senza troppi problemi in questi, come molti altri, libri. Il giornalista né da una spiegazione molto semplice: nelle case editrici non si fa fact-checking: “se un autore commette un errore o interpreta male uno studio, nessuno lo ferma”. Lo racconta anche a proposito della sua esperienza editoriale con un editore britannico.
L’articolo di Michael Marshall solleva due punti interessanti per chi fa divulgazione scientifica in Italia. Il primo è che forse dovremmo rivedere alcune posizioni ammirate che spesso circolano a proposito di quanto sia meglio il mondo anglosassone. Sì, lo è per alcuni motivi, perché per esempio tende a pagare meglio chi lavora nel settore culturale, perché la divulgazione scientifica è presa più seriamente in considerazione nel dibattito pubblico e forse per altre mille ragioni. Ma non fa troppo fact-checking tanto quanto non lo facciamo qui da noi.
Il secondo punto interessante è qualcosa di cui la comunità di divulgatori e divulgatrici scientifiche ha discusso all’ultima Strambinaria. Come possiamo distinguere buona divulgazione, basata sui fatti scientifici accertati e sulla letteratura più solida rispetto a quella fatta con superficialità che rischia di introdurre nel dibattito pubblico distorsioni? A Strambino la comunità ha contribuito a un dibattito importante e sul quale, in mancanza di una soluzione, bisognerà continuare a discutere.
Città, campagna e piogge intense
In queste settimana le forti piogge che hanno colpito l’Italia e, soprattutto, la Spagna, sono al centro del dibattito pubblico. Un recente studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences ha rivelato che molte aree urbane nel mondo ricevono più pioggia rispetto alle zone rurali circostanti. Non che ci sia un rapporto con gli eventi estremi che abbiamo visto recentemente, ma la ricerca ha analizzato dati satellitari e radar provenienti da oltre mille città tra il 2001 e il 2020, evidenziando esempi di città come Milano, Barcellona, Kyoto e Lagos, mettendo in luce significative anomalie nella precipitazione urbana. In particolare, indicando che circa il 63% delle città riceve annualmente più pioggia rispetto alle aree rurali adiacenti.
Ne ha scritto diffusamente Sara Urbani in un articolo intitolato “Le anomalie di precipitazione su oltre mille città” e pubblicato sul sito della Missione Clima del Comune di Bologna.